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G. W. FRIEDRICH HEGEL

di Salvatore Veca

 

COMPRENDERE IL PRESENTE

"Quando la potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini, e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia". Così Hegel a Jena nel 1801, mentre sta per intraprendere la costruzione di un sistema filosofico grandioso, interpreta il proprio compito teorico come risposta alle dolorose lacerazioni che accompagnano la nascita di un nuovo mondo. L’illuminismo e la crescita impetuosa della cultura, le trasformazioni economiche, i principi di libertà affermati dalla rivoluzione francese e lo sconvolgimento del vecchio ordine europeo con le guerre napoleoniche hanno aperto un’epoca nuova nella storia del mondo. "L’intera massa delle rappresentazioni, dei concetti che abbiamo avuto fino ad ora, le catene del mondo, si sono dissolte e sprofondano come un’immagine di sogno". Si tratta per Hegel di una svolta storica drammatica e senza precedenti, in cui già si rivela la maturazione e il compimento dell’intera civiltà occidentale.

Hegel ritiene che le grandi filosofie sorgano sempre nei periodi di transizione. Esse portano a coscienza il nuovo orizzonte di significati e di valori in cui si trovano a vivere gli uomini dopo la disgregazione dell’ordine spirituale precedente. Così anche ora, di fronte a conflitti, che appaiono insolubili e puramente distruttivi, tra opposti principi morali, politici e religiosi, spetta alla filosofia mostrare la razionalità profonda di queste contraddizioni. I tempi sono sufficientemente maturi affinché si riconducano quelle che sembrano potenze estranee e inconciliabili all’unità vivente che in esse si esprime, e che sola ne racchiude il vero significato e la necessaria ricomposizione.

"La filosofia è comprensione del proprio tempo nell’ordine del pensiero". Il presente va compreso nella sua genesi storico-spirituale, nel movimento conflittuale che lo ha prodotto e che lo attraversa. La filosofia sarà quindi una logica del mutamento e della contraddizione: una dialettica.

 

LE SCISSIONI DELLA COSCIENZA RELIGIOSA

Al seminario di Tubingen, assieme ai compagni di studi Schelling e Holderlin, il giovane Hegel segue con passione gli eventi della rivoluzione francese che per tutta la vita considererà una svolta storica decisiva. Ancora negli ultimi anni, ormai molto lontano dalle convinzioni politiche giovanili, ne parlerà come di "una splendida aurora": "dominò in quel tempo una nobile commozione, il mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo dello spirito, come se allora fosse finalmente avvenuta la vera conciliazione del divino col mondo" (Lezioni sulla filosofia della storia). L’acuto interesse per i problemi storici e politici nasce dunque già nel seminario di Tubingen e avrà un ruolo determinante in tutta la riflessione hegeliana. È in questa prospettiva che nei cosiddetti Scritti teologici giovanili Hegel riflette sulla storia del cristianesimo, ricercando le origini della servitù politico-religiosa del presente.

Lo sfondo, fortemente idealizzato, su cui si staglia la svolta cristiana è la religione greca della libertà, della bellezza e della vita, cioè di un’epoca in cui l’individuo si identificava con la comunità, con la natura e con i propri dèi. È con il tramonto di questa età felice e della sua virtù civile che, nel mondo romano in decadenza, la dottrina cristiana si afferma come espressione di tempi di dispotismo e di servitù politica. Vi è una profonda corrispondenza, per Hegel, tra una religione e il mondo storico-sociale cui essa appartiene. La rappresentazione di Dio come "oggettività" trascendente e onnipotente "è proceduta di pari passo con la corruzione e la schiavitù degli uomini ed è propriamente solo una manifestazione e una visualizzazione di questo spirito del tempo". Alla religione pubblica del cittadino antico, il cristianesimo subentra inizialmente come religione privata del singolo, quando l’unità della vita "etica" (dei costumi e dei valori condivisi) è ormai infranta. È una religione della morte, della tristezza e del commiato dal mondo.

Mentre condanna come presunzione peccaminosa la fiducia dell’uomo nelle proprie capacità, il cristianesimo offre una compensazione santificando la sventura e la sofferenza. Sono gli uomini stessi a proiettare nella figura di Cristo le proprie migliori qualità, e a riconoscersi nell’immagine umiliante di creature corrotte. Si tratta di un processo inconsapevole di auto-espropriazione. Dopo secoli di cristianesimo, i segni del tempo indicano, per Hegel, che finalmente "il bello della natura umana, che noi stessi ponevamo nell’individuo a noi estraneo, in quanto trattenevamo di essa solo tutte le cose disgustose di cui è capace, viene di nuovo con gioia conosciuto da noi come nostra opera, ce ne appropriamo imparando perciò a sentire rispetto per noi, mentre prima ci credevamo solo oggetto di disprezzo". L’emancipazione moderna dell’uomo è la riconquista dell’autonomia razionale e morale contro le potenze estranee dell’autorità religiosa e politica, che chiedono cieca sottomissione. In un primo momento, Hegel contrappone quindi alla positività, cioè all’autorità eteronoma del cristianesimo, le esigenze irrinunciabili della ragione pratica kantiana (autonomia e libertà).

Sin dagli anni di Francoforte, tuttavia, sfumate le speranze nella rivoluzione francese, Hegel si allontana dalla concezione illuministica della filosofia come lotta contro l’esistente in nome degli ideali di ragione e di giustizia. Questo gli appare ora un atteggiamento che si condanna all’impotenza, in quanto riproduce una nuova scissione, quella tra l’intelletto e la realtà. Compito della filosofia non è contrapporsi al mondo per affermare i propri astratti principi, bensì pensare a fondo il reale e mostrare come già in esso siano presenti la lotta e la contraddizione secondo un ordine razionale che va compreso. La realtà è incessante e tragico mutamento, riproduzione ma anche risoluzione di conflitti, e non attende certo gli insegnamenti o l’iniziativa degli intellettuali.

L’indagine hegeliana sul cristianesimo ora si approfondisce nel tentativo di pensare la storia come processo dialettico. Ciò che nelle religioni storiche è "positivo" (imposto da un autorità, ma anche particolare e contingente) non va contrapposto, come nel deismo, all’unicità di una natura umana universale ed eterna, da cui sorgerebbe la sola e vera religione razionale. Questa concezione della natura umana è una rappresentazione astratta e vuota. L’essenza dell’uomo esiste concretamente soltanto nella molteplicità storica delle sue espressioni determinate. Allo stesso modo, una religione si esplica storicamente proprio nella particolarità dei sentimenti, delle dottrine e del culto. Non spetta a una ragione astratta condannare l’accidentalità delle religioni positive, confrontandole estrinsecamente con un puro ideale al di fuori del tempo. L’universale, infatti, vive solo nelle sue incarnazioni storiche e contingenti. Finché gli elementi di una religione sono immersi nello spirito del loro tempo, conciliati con la vita del tutto, non si può parlare di positività. Quando invece il particolare finito pretende di porsi come assoluto e imperituro, quando vuole opporsi al mondo cui appartiene e al suo divenire, allora subentra la morta positività come "eredità estranea di tempi trascorsi". Ciò che era un’espressione della vita ora diviene soltanto l’imposizione di un’autorità. Ma, a questo punto, a decretarne la condanna e il tramonto è lo svolgimento stesso del reale.

Per esprimere questo movimento dialettico, Hegel rielabora il concetto di destino della tragedia greca. Chi lotta contro un destino, in realtà non fa che scagliarsi, senza saperlo, contro una parte di se stesso, la quale gli appare nella figura di un nemico perché egli l’ha separata da sé e quindi la ritrova come una potenza divenuta estranea. Quanto più il singolo afferma la propria volontà, quanto più si scinde dall’unità della vita cui appartiene, tanto più collabora inconsciamente a realizzare un piano che lo trascende e a superare il proprio isolamento.

È l’ebraismo la figura storica dell’assoluta scissione: dalla natura, dagli altri popoli, da un Dio infinitamente lontano che incombe sugli uomini come padrone assoluto e durissima legge. Ma il destino di ogni finito che si contrappone all’infinito è quello di superare la propria determinatezza separata per riconfluire nella totalità. Il destino dell’ebraismo si compie così nella religione dell’amore di Gesù, il quale annuncia la riconciliazione tra Dio e gli uomini. Nell’amore viene superata la positività estranea e "nemica" della legge divina. Tuttavia anche l’amore evangelico, come ogni momento finito della storia, non può sottrarsi al proprio destino di scissione. Lo sviluppo del cristianesimo ha mostrato come "chiesa e stato, culto e vita, pietà e virtù, agire spirituale e agire mondano non possano mai fondersi in uno".

Alla coscienza infelice del giudaismo, che soffre per la scissione e per la lontananza da Dio, corrisponde nell’epoca moderna il rigorismo astratto della morale kantiana, che ora Hegel condanna come scissione tra legge razionale e inclinazione sensibile. Si tratta di una lacerazione ancora più dolorosa, perché portata all’interno della stessa coscienza: l’individuo tormentato dall’imperativo categorico è schiavo di un padrone interiore, così come l’ebreo era schiavo di un Dio trascendente.

 

LA CONTRADDIZIONE DEL FINITO E IL VERO COME TOTALITÀ

Negli scritti di Jena che precedono la Fenomenologia dello Spirito, per la maggior parte non destinati alla pubblicazione, Hegel ricerca le condizioni teoriche per pensare la totalità, quel "sacro mistero" che è "la connessione tra finito e infinito".

L’errore di Kant e di Fichte, secondo Hegel, consiste nel concepire l’infinito come forma astratta e vuota, opposta alle determinazioni finite come un ideale irraggiungibile che le trascende. Tanto nella conoscenza quanto nella morale, l’assoluto rimane un eterno dover essere che non giunge mai all’esistenza. La dialettica dello Streben fichtiano è prigioniera di una cattiva infinità: una volta che infinito e finito siano posti l’uno fuori dell’altro come incommensurabili, l’incessante superamento del limite è un progresso puramente quantitativo che lascia sussistere l’abisso qualitativo fra i due estremi.

Hegel riprende da Schelling l’idea di assoluto come identità dei contrari che non può essere raggiunta dalla riflessione: questa infatti separa gli elementi finiti e li irrigidisce nella loro opposizione, perdendo l’unità della "vita", della totalità vivente e dinamica.

È invece la ragione speculativa, ben distinta dall’intelletto astratto, a elevarsi sino alla comprensione della totalità come processo. Ogni esistenza determinata è tale in quanto negazione di altre esistenze determinate, dalle quali viene a sua volta negata: ciascuna ha realtà nella differenza dall’altra, da cui riceve la propria delimitazione. Ma tutte sono costrette ad "andare oltre se stesse", per trovare la loro verità solo nella totalità dei rapporti in cui sono implicate come molteplici manifestazioni dell’assoluto. "Soltanto questa è la vera natura del finito, che esso è infinito e nel suo essere si toglie. Il determinato come tale non ha altra essenza che questa assoluta inquietudine, di non essere ciò che è". L’infinito "non è un aldilà, ma semplice rapporto, il puro movimento assoluto" (Logica di Jena).

Diversamente da Schelling, tuttavia, Hegel non pensa l’assoluto come pura identità, perché così si perderebbe la ricchezza delle sue molteplici determinazioni. Le differenze infatti vengono sì superate nella loro astratta indipendenza, ma allo stesso tempo conservate nel sistema globale delle relazioni: è questo il duplice significato dei termini hegeliani "aufheben" e "Aufhebung". L’assoluto non è solo affermazione e identità, che risulterebbero vuote, ma è insieme negazione e differenza.

In questa prospettiva la filosofia, così come la realtà che in essa si esprime, non può che essere sistema:"ogni parte è allo stesso tempo il tutto, poiché ogni parte sussiste in rapporto all’assoluto. In quanto parte, che ha fuori di sé le altre, è un limitato e limitato soltanto per mezzo degli altri, isolata come limitazione, essa è imperfetta, non ha senso e significato che mediante la sua connessione col tutto. Non si può quindi parlare di concetti singoli per sé, di singole conoscenze come di un sapere" (Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling).

Le opposizioni, come ripeterà Hegel nelle tarde Lezioni di estetica, non sono state inventate dalla filosofia, ma sono nella realtà stessa, ne costituiscono la vita e il movimento. La cultura delle diverse epoche le ha espresse di volta in volta come conflitto tra spirito e materia, fede e intelletto, ragione e sensibilità, intelligenza e natura. Nella cultura moderna la scissione si è estesa a tutto il nostro mondo, che è attraversato da dolorose lacerazioni. "È allora compito della filosofia superare gli opposti, cioè mostrare che né l’uno nella sua astrazione, né l’altro nella sua eguale unilateralità hanno verità, ma sono ciò che dissolve se stesso; e che la verità risiede solo nella conciliazione e nella mediazione di entrambi, e questa mediazione non è una semplice esigenza, ma ciò che in sé e per sé è realizzato e sempre si realizza".

La filosofia non è più "critica", battaglia ideale contro l’esistente per portare la ragione nel mondo. Il nostro destino di scissione non va combattuto ma, come avrebbe detto Spinoza, va compreso nella sua necessità. Superando l’intelletto che si aggrappa alle singole forze in lotta, agli estremi isolati delle opposizioni, bisogna saper vedere l’ordine razionale e il significato dell’intero. È qui, non nei nostri progetti astratti, che si produce la soluzione delle contraddizioni. La filosofia come sistema è riconciliata col mondo.

 

LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

L’assoluto, in quanto processo vivente di infinita autoproduzione, non può essere posto dalla riflessione del filosofo come un "oggetto" di pensiero: vi sarebbe una ricaduta nella struttura oppositiva della coscienza, nella relazione esteriore tra un io e un non-io finiti. Anche il concetto spinoziano di "sostanza" risulta inadeguato perché, pur indicando una totalità infinita, conserva il carattere di un’inerte oggettività, consegnata alla contemplazione di un soggetto che rimane ad essa esterno.

Hegel considera una grande conquista del pensiero moderno, resa possibile dal cristianesimo, il fatto di avere inteso l’assoluto come spirito. Poiché è spirito, il vero non può essere soltanto sostanza, ma è anche e soprattutto soggetto, attività che ha in sé il principio del proprio svolgimento e che, riflettendosi al proprio interno, diviene cosciente di sé. Lo spirito, in quanto soggetto-sostanza, va considerato non come una soggettività finita e accidentale, non come un io, ma come un sè, come soggetto assoluto che si sviluppa sino alla perfetta coincidenza di realtà e sapere.

Il filosofo che si accinge a produrre il sistema del sapere si trova però prigioniero della propria soggettività, del proprio accidentale ma ineliminabile punto di vista: riflettere sull’assoluto è sempre porre un oggetto e quindi perdere l’assoluto. L’unica possibilità della scienza è che sia lo spirito stesso nel suo divenire a conoscere e a manifestare la propria verità. Il sistema allora non sarà tanto la costruzione di un filosofo, quanto il progressivo svelarsi dello spirito nel tempo. Il ruolo del singolo pensatore si riduce alla descrizione di una verità che si mostra nel suo sviluppo necessario, cui egli deve "abbandonarsi" senza sovrapporre le proprie futili e anguste prospettive individuali.

Nella Prefazione alla Fenomenologia viene rilevato il carattere contraddittorio di tutta la moderna riflessione gnoseologica, da Cartesio a Kant. Porre in astratto e a priori, cioè prescindendo dai contenuti, il problema del metodo della conoscenza, a partire da una pretesa autonomia dell’io e dall’esame delle sue facoltà, significa presupporre una scissione non più ricomponibile. Nel rappresentare la conoscenza come metodo o "strumento", si istituisce già una separazione tra un soggetto vuoto, puramente formale, e un contenuto che gli si oppone come esterno, irraggiungibile nel suo essere "in sé". La critica delle "filosofie della riflessione" è implicita del resto nella stessa concezione hegeliana della verità come spirito. Questo, in quanto è totalità, non ammette nulla di esterno, tanto meno un io che "dal di fuori" ne ponga le determinazioni; inoltre, in quanto è soggetto, lo spirito deve comprendere in sé la polarità della coscienza, del sapere.

La conoscenza e la verità non possono cadere l’una fuori dell’altra, poiché sono i due momenti della vita dello spirito che diviene consapevole di sé. La dialettica non è un metodo, una forma indifferente alla molteplicità dei contenuti, ma è il movimento stesso del vero in tutta la sua concreta ricchezza.

Nella "Prefazione", compare anche un durissimo e sprezzante attacco contro la filosofia romantica della natura e contro Schelling, cioè contro i tentativi di superare i limiti finiti della riflessione per cogliere l’assoluto come identità, al di là di ogni opposizione. Hegel rifiuta l’immediatezza dell’intuizione intellettuale, che pretende di attingere la verità nell’istante di una mistica illuminazione. Una volta caduta ogni distinzione concettuale, l’assoluto raggiunto per tale via irrazionale può essere solo pura identità, vuota e indistinta: "bianco senza forma" o "notte in cui tutte le vacche sono nere". Con un eccesso di sarcasmo, le polarità della dialettica schellinghiana vengono da Hegel dileggiate come analogie superficiali e fatui trucchi da prestigiatore. Soprattutto, si critica il fatto che tutte queste determinazioni non vengano razionalmente dimostrate come autentiche articolazioni della totalità ma, in quanto frutto della riflessione, vengano subito dissolte nella vuota e indifferente identità.

Contro "quell’entusiasmo che, come un colpo di pistola, comincia immediatamente dal sapere assoluto", bisogna più sobriamente ricordare che l’assoluto "è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità". Non c’è alcuna via diretta al vero, la ragione è per essenza mediazione, "duro lavoro del concetto". Può non essere vuota soltanto quella totalità che non respinga fuori di sé la riflessione finita, ma l’accolga al suo interno come motore del proprio infinito e concreto divenire. A conclusione dello svolgimento dialettico del sapere e del reale, quando lo spirito è pienamente rivelato, si comprende che "il vero è l’intero". L’intero non è solo il risultato, la meta raggiunta, bensì il risultato assieme a tutti i momenti del suo sviluppo.

Non si può dunque cominciare dalla verità. Da un lato, rispetto alla meta finale, al vero totalmente dispiegato, ogni inizio è inevitabilmente un "falso" sapere; d’altro lato, in quanto momento dello sviluppo del vero, è parte di esso, anche se come stadio superato. Più che di un falso sapere, si tratta allora di un sapere "apparente", di un modo ancora incompleto in cui si è manifestato lo spirito. Non spetta all’arbitrio del filosofo stabilire l’ordine e la fisionomia dei diversi momenti e passaggi. È l’intera storia della civiltà a presentarsi come una successione, discontinua e tormentata, di forme spirituali sempre più elevate e complesse.

Lo spirito, per dispiegare la propria infinita ricchezza e divenire consapevole di sé, non può restare chiuso nella sua identità immediata. Deve farsi oggetto a se stesso, cioè esteriorizzarsi nella figura di un altro da sé. Solo in questo processo di alienazione si apre una struttura di coscienza, una necessaria scissione interna nella quale lo spirito come soggetto può contemplare se stesso come oggetto.

Nel corso del tempo, lo spirito si è manifestato di volta in volta in una particolare figura della coscienza, ossia in una individuale o collettiva visione del mondo, in un determinato orizzonte culturale. Ciascuna figura costituisce una rivelazione parziale e incompiuta, ma pretende di porsi come assoluta, di essere la verità. In questo modo, essa va incontro al destino di ogni finito, quello di entrare in contraddizione con se stesso e di produrre la propria negazione, dalla quale sorge una nuova e superiore figura. Lo sviluppo dialettico di tutte le figure della coscienza non è che l’intero e compiuto manifestarsi dello spirito: è appunto l’oggetto della Fenomenologia ("scienza dell’apparire") dello spirito.

Se ogni punto di vista parziale, riflessivo e finito, è inadeguato a cogliere la verità, prima di poter esporre il sistema del vero è necessaria una liberazione preliminare da tutte le prospettive limitate. Queste devono essere superate e integrate nel "punto di vista speculativo", che coincide con la compiuta coscienza che lo spirito stesso ha di sé. La Fenomenologia è appunto una propedeutica alla scienza; prepara la coscienza accompagnandola nel suo sviluppo dalle forme più povere e ingenue sino alla posizione finale del sapere assoluto, l’unica finalmente adeguata all’esposizione del sistema.

La condizione alienata di ogni coscienza finita consiste nel fatto di trovare davanti a sé il proprio oggetto, il proprio mondo, come altro da sé. Essa non sa riconoscere in tale estraneo un fenomeno dello spirito, non comprende l’unità profonda tra se stessa e l’oggetto. La coscienza deve compiere fino in fondo la propria esperienza di scissione, per giungere infine a riconoscerla come la forma alienata in cui ha dovuto necessariamente mostrarsi lo spirito. Alla fine, nella figura del sapere assoluto, l’esteriorità tra la conoscenza e il suo oggetto è superata. Si è consumata la scissione che ha dato origine alla coscienza e lo spirito è rientrato in sé dalla propria alienazione, ha riconosciuto come proprio ciò che aveva proiettato in una figura estranea. Il risultato ritorna così circolarmente all’unità dell’inizio, ma non più come vuota immediatezza.

Dopo avere attraversato tutte le forme della lacerazione e dell’alterità, lo spirito le conserva in se stesso come superate, interiorizzate nella propria memoria. Esso si è così riappropriato dell’intera storia della civiltà.

Lo sviluppo dello spirito è certamente per Hegel un progresso verso conquiste sempre più alte, ma non ha nulla di lineare o di armonico. La Fenomenologia ha accenti altamente tragici. In una forma letteraria densa ed estremamente difficile, viene articolato in un processo dialettico unitario un contenuto sterminato. L"‘esperienza", infatti, è intesa qui in un senso molto più vasto di quello di semplice esperienza conoscitiva. Entrano nel quadro le diverse epoche della civiltà, gran parte della storia della filosofia, problemi teologici e scientifici, giuridici ed economici, assieme a tematiche esistenziali, estetiche e politiche. La condizione e il prezzo di tale ricchezza sono "la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo". Lo spirito per Hegel non è "la bellezza senza forza" di un’armonica identità che rifugge dalla potenza distruttrice dell’intelletto, dalle sue separazioni e distinzioni. "Non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione".

Il motore dell’intero processo è la negazione determinata. Hegel critica il concetto intellettualistico di negazione, inteso come annullamento totale di un elemento finito. Ciascuna figura fenomenologica entra in contraddizione con se stessa e si nega; ma il risultato non è il puro nulla, che ci riporterebbe ogni volta al punto di partenza. Dalla negazione di un determinato risulta sempre una negazione determinata, che non è vuota, in quanto conserva come contenuto ciò che è stato negato, anche se nella forma di qualcosa di superato.

Così, dalla negazione di una figura della coscienza si produce il suo superamento dialettico in una figura superiore, che è tale proprio perché accoglie in sé anche il contenuto della prima.

Al termine del processo, tutte le figure finite sono assimilate nell’unità dello spirito e qui ricevono il loro vero significato; il "lavoro del negativo" ha tolto loro l’apparente rigidità di elementi isolati e contrapposti, per farle confluire nella vita del tutto.

La Fenomenologia è il percorso pedagogico della Bildung ("formazione") della coscienza individuale, che ripercorre i gradi della Bildung dello spirito universale, "ma come figure dallo spirito già deposte, come gradi di una via già tracciata e spianata". Il patrimonio culturale dell’intera umanità si presenta dapprima al singolo come un’oggettività estranea, che deve essere assimilata attraverso una lunga e faticosa riappropriazione. La Fenomenologia non è comunque una filosofia della storia; la successione delle figure è un ordine concettuale, non cronologico.

Il lungo e drammatico itinerario della coscienza costituisce un’auto-educazione: è la coscienza stessa, nella tensione verso il vero sapere, a scoprire di volta in volta la propria inadeguatezza. Il filosofo non impartisce dall’esterno i propri insegnamenti, ma si limita a descrivere il movimento dialettico della coscienza esplicitandone l’ordine necessario e finalistico.

Il cammino della coscienza verso il sapere si svolge attraverso numerosissime figure che sono articolazioni interne di sei grandi momenti dialettici: coscienza, autocoscienza, ragione, spirito, religione, sapere assoluto.

 

Coscienza

La prima figura della Fenomenologia è quella che appare - come la più immediata e la meno problematica: la certezza sensibile. Essa si ritiene la conoscenza più ricca e determinata, ma si scopre come la più povera e indeterminata.

Nella sua immediatezza, la certezza sensibile non può definire il proprio oggetto, altrimenti ricorrerebbe a concetti già frutto di riflessione. Neppure ne può parlare, in quanto ogni termine del linguaggio, anche un semplice aggettivo o sostantivo, implica differenze, rapporti e classificazioni. Il suo oggetto ineffabile può solo essere indicato come un "questo", "qui" ed "ora". Ma il vuoto "questo" viene adesso riempito dall’intuizione sensibile di un albero, un istante dopo da quella di una casa. L’"ora" è prima la mezzanotte, poi il mezzogiorno. Ciò significa che anche delle espressioni così indeterminate sono già dei "contenitori" universali, delle astrazioni.

Il preteso sapere immediato vede dileguare la supposta concretezza della sua verità ingenua e si trova consegnato al movimento dialettico della mediazione.

La coscienza crede in un momento successivo di avere raggiunto una posizione più stabile come percezione. Si ha qui l’attribuzione di diverse "proprietà" a una "cosa". L’oggetto però comincia a vacillare a causa della contraddizione tra l’unità (un cristallo di sale) e la molteplicità (bianco, cubico salato). L’unità viene una volta collocata nell’oggetto in sé mentre l’origine delle molteplici proprietà è attribuita alla soggettività della coscienza; un’altra volta l’unificazione è considerata opera della coscienza, mentre l’oggetto si dissolve nelle diverse proprietà.

Attraverso i concetti di "forza" e di "legge", la coscienza come intelletto perviene a istituire una relazione tra l’interno sovrasensibile delle cose e la molteplicità dei fenomeni in cui esso si manifesta.

Subentra poi il concetto dell’"infinità" come unità vivente nell’infinita differenziazione: "l’anima del mondo, il sangue universale che, onnipresente, non viene turbato né interrotto da alcuna differenza". Tale unità dialettica non è un’arcana "cosa in sé"; non è altro che il "concetto assoluto", ossia è pensiero. "Dietro la cosiddetta cortina che dovrebbe occultare l’interno non c’è niente da vedere, a meno che noi stessi non ci rechiamo là dietro". La coscienza supera così il realismo ingenuo da cui era partita e nell’oggetto, che prima le appariva un estraneo, vede se stessa, la propria attività costruttrice e ordinatrice. La coscienza è divenuta quindi coscienza di sé, autocoscienza.

 

Autocoscienza

La coscienza era rivolta all’alterità dell’oggetto, l’autocoscienza è invece il ritornare a sé dall’esser-altro del mondo. Per conquistare e mantenere l’identità dell’io con se stesso, l’autocoscienza deve continuare a togliere l’opposizione dell‘oggetto. Come incessante movimento di distruzione dell’alterità, essa implica un momento non soltanto teoretico, ma anzitutto pratico. L’autocoscienza si manifesta così in primo luogo come appetito. Il mondo sensibile non ha per lei alcuna sussistenza in sé, è soltanto oggetto da negare, da consumare nel soddisfare l’appetito.

Il movimento dell’appetito e dell’appagamento non apre tuttavia una vera dialettica, non porta a un livello superiore: è la semplice ripetizione del ciclo biologico comune a tutto il mondo animale. Al soddisfacimento del bisogno, seguono ogni volta un nuovo bisogno e un nuovo oggetto da assimilare. L’alterità si ripresenta così all’infinito. L’autocoscienza, però, privilegio esclusivo dell’uomo, supera la contraddizione dell’appetito animale, scoprendo che il vero oggetto del proprio desiderio non è tanto la cosa, semplice mezzo per affermare l’io, quanto, appunto, se stessa. Nell’appetito e nella distruzione dell’oggetto, essa cerca la propria identità. L’autocoscienza può quindi raggiungere l’appagamento nell’unico caso in cui l’altro non sia una semplice cosa, ma un’altra autocoscienza. Per poter vedere il proprio io, essa deve dapprima trovarlo nella figura di un altro da sé.

In questa duplicazione, ciascuna autocoscienza incontra nell’altra un desiderio analogo al suo. L’appetito, rivolto non più a una cosa, ma ad un’altra autocoscienza, diviene desiderio del desiderio di questa: si tratta di impadronirsi non dell’altro come di un oggetto, ma della sua volontà. Il desiderio tipicamente umano va oltre l’appagamento dei bisogni naturali, è desiderio di riconoscimento. L’individuo può riconoscere se stesso come soggetto, come volontà libera, soltanto se viene riconosciuto come tale da un altro soggetto, cioè se ottiene che l’altro lo rispetti nella sua dignità di autocoscienza. La possibilità umana di dire "io", che inaugura il mondo dello spirito, nasce esclusivamente in una relazione intersoggettiva.

In un primo momento, gli individui si fronteggiano come "coscienze calate nell’essere della vita", come esistenze immediate. Ma l’autocoscienza, cioè il mondo propriamente umano, può sorgere solo lacerando l’immediatezza della vita naturale. È necessaria una relazione con la morte per liberare la soggettività umana dalle catene dell’esistenza data, della "cosalità". L’autocoscienza può provare di essere assolutamente autonoma da ogni essere immediato se si dimostra capace di negare la vita stessa. La nega in sé, rischiando la propria vita, e la nega nell’altro, mirando alla sua morte. La relazione tra le due autocoscienze, entrambe decise a imporsi e a farsi riconoscere come libertà incondizionata, è una lotta per la vita e per la morte. Ciascuna vuole essere riconosciuta, ma non vuole riconoscere l’altra, per non contrarre un debito, per non mostrare una dipendenza dall’altra.

Se la lotta si conclude con la morte di una delle due autocoscienze, l’obiettivo del riconoscimento è mancato. L’uccisione dell’avversario è una negazione naturale, immediata della vita, e in quanto tale, spezza il rapporto dialettico: non si può essere riconosciuti da un cadavere.

Perché vi sia negazione dialettica, spirituale, occorre invece che l’altro sia tolto come autocoscienza autonoma, ma sia conservato come essere vivente e come coscienza dipendente, asservita. Chi tra i due per primo ha paura e si ritira dalla lotta, mostra un attaccamento all’esistenza naturale maggiore del desiderio umano di libertà: esce dal confronto come autocoscienza servile. Infatti, "soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà", si prova che l’autocoscienza non considera come propria essenza "il suo esser calata nell’espansione della vita". L’altro, che ha sfidato la morte, si è quindi elevato al di sopra della schiavitù animale della vita: è un autocoscienza signorile.

La complessa dialettica servo-signore, che approderà a un rovesciamento finale delle posizioni di partenza, non va intesa in senso realistico, né situata in una fase determinata della storia. Si tratta di un momento concettuale, astrattamente isolato, dell’esperienza fenomenologica. Più che uno stadio della storia umana, lo sviluppo dell’autocoscienza rappresenta la nascita stessa dell’uomo come essere storico e spirituale, la sua liberazione dal ciclo biologico della natura.

Il signore ha ottenuto di essere riconosciuto come soggetto libero dal servo, cui ha accordato la vita ma non il riconoscimento. Il servo, che accetta una vita concessa da un altro, si umilia ed è umiliato come cosa, proprietà del signore. Nel suo attaccamento alla vita animale, egli non ha potuto elevarsi al di sopra dell’essere immediato: "questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta". Il signore ha invece saputo disprezzare la natura, persino la propria vita in quanto condizionamento naturale, conquistando così un diritto assoluto sulle cose e, attraverso queste sul servo che ne dipende. In modo simmetrico, la relazione del signore con le cose è mediata dal servo che, lavorando, gliele offre dopo averle depurate da ogni elemento di alterità naturale, pronte per il consumo. All’autocoscienza signorile è risparmiato lo scontro quotidiano col mondo; essa nega immediatamente l’oggetto nell’istante effimero del godimento.

La vittoria del signore si rivela però illusoria e sterile, non suscettibile di ulteriori sviluppi dialettici. Egli ha ottenuto di essere riconosciuto da qualcuno cui non riconosce alcun valore, cioè da una "cosa". Lo stesso riconoscimento non ha quindi per lui alcun valore. Inoltre, il signore si è liberato dalla dipendenza naturale solo perché dipende dal lavoro del servo. E un’autocoscienza "astratta" che non si è formata in un’effettiva esperienza dell’alterità naturale.

Il movimento prosegue allora nel lavoro del servo. E qui che avviene la negazione dialettica della natura, negazione che toglie l’oggetto come essenza estranea e indipendente, ma lo conserva trasformato in docile prodotto. A differenza del godimento signorile, puramente distruttivo ed evanescente, "il lavoro è un appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma dell’oggetto stesso, diventa qualcosa che permane". Forzato al lavoro, costretto a disciplinare i propri impulsi immediati, è solo il servo a fare l’esperienza quotidiana del dominio dell’uomo sulla natura e sulla propria natura. La formazione (Bildung) dell’oggetto è allo stesso tempo formazione ed educazione del soggetto, cultura (Bildung). Nella forma durevole che ha impresso al prodotto, il servo vede oggettivata la propria attività umana, la dignità della propria autocoscienza. La liberazione dall’essere immediato, che il signore aveva raggiunto astrattamente affrontando la morte, diviene nel servo un processo concreto di lunga e faticosa emancipazione dalla dipendenza naturale.

La cultura come liberazione dall’esteriorità del mondo è una conquista che, però, non diviene consapevole nel servo stesso che lavora, ma in una nuova figura dell’autocoscienza che storicamente si è manifestata nello stoicismo. Come il lavoro imponeva la forma del soggetto alle cose, togliendone l’alterità, così fa il pensiero, che sottomette alla forma universale dell’io ogni oggetto pensato. Il saggio stoico sa ritrovare se stesso in qualsiasi condizione esteriore: autocoscienza libera "sul trono e in catene", "dal movimento dell’esistenza, così dall’agire come dal patire, si rifugia sempre nell’essenza semplice del pensiero". Si tratta tuttavia di una libertà astratta e vuota, che si innalza al di sopra delle differenze accidentali della vita semplicemente ignorandole, ma lasciandole comunque sussistere intatte. È un’impassibilità senza vita, che si afferma in "tempi di generale paura e servitù, ma anche di generale cultura".

La figura successiva, lo scetticismo, attacca direttamente l’essere determinato da cui lo stoico si limitava a ritrarsi. La critica distruttrice dello scettico dispiega tutta la potenza negativa del pensiero, dissolvendo l’ingenua fiducia nell’oggettività del mondo. Tale figura non è che l’esperienza consapevole del movimento dialettico del pensiero, che rivela la nullità di ogni contenuto finito e l’inconsistenza di ogni realtà determinata. Dall’annientamento dell’alterità oggettiva, l’autocoscienza emerge come assoluta libertà e certezza di sé, come infinita soggettività. Questa distruttività si ritorce però contro la stessa coscienza scettica, che si scopre anch’essa accidentale e particolare. Ne deriva un’ "autocoscienza smarrita", che continua ad oscillare tra i due poli dell’immutabile certezza di sé e dell’estrema mobilità di un io confuso e impigliato nelle differenze dell’esistenza.

L’interna scissione dell’autocoscienza scettica diventa consapevole nella coscienza infelice. La duplicità, che si era distribuita nelle figure opposte del servo e del signore, si riproduce ora nella lacerazione interiore dell’autocoscienza. Questa vive il dramma del singolo che si è spinto sino alla pura soggettività, perdendo la propria sostanza universale. In un primo momento, che corrisponde allo spirito dell’ebraismo, la coscienza scissa proietta fuori di sé il proprio lato immutabile e universale, identificandosi con quello mutevole e accidentale. Di fronte a un Dio trascendente e inaccessibile, in cui ha collocato la propria essenza, essa si umilia come nullità inessenziale. Quando l’universale assume anch’esso, nel Cristo, la figura della singolarità, appare una speranza di riconciliazione. Ma la devozione cristiana si protende invano verso l’eterno che rimane "l’irraggiungibile aldilà che sfugge anzi è già sfuggito nell’atto in cui si tenta di afferrarlo". L’ascetismo medievale, con la rinuncia al mondo e con la mortificazione della carne, approfondisce il tentativo della coscienza di liberarsi della propria individualità inessenziale, di annientare il proprio io che ostacola l’unione con l’infinito.

 

Ragione

La coscienza infelice è l’esito tragico dell’intera dialettica dell’autocoscienza. Dopo aver conquistato la propria libertà separandosi dalla vita, l’autocoscienza si scopre alla fine lacerata entro se stessa, come estrema soggettività separata dalla propria verità sostanziale. La riconciliazione con l’universale si attua nella figura della ragione. Questo passaggio corrisponde storicamente al sorgere dell’umanesimo e del naturalismo rinascimentale. L’autocoscienza ritrova ora nel mondo la propria essenza, la verità universale che aveva proiettato nell’aldilà. La realtà non appare più come un’alterità minacciosa, bensì rivela un’immanente razionalità. La ragione è coincidenza di essere e pensiero, sintesi dialettica della coscienza (volta all’oggettività dell’essere) e dell’autocoscienza (affermazione della soggettività nel pensiero).

L’universale viene dapprima cercato nelle leggi della natura e della vita psichica, poi nell’attività pratica e morale.

 

Spirito

Con questa sezione inizia la seconda parte della Fenomenologia, i cui contenuti nel sistema hegeliano compiuto verranno ripresi nella trattazione dello "spirito oggettivo" e dello "spirito assoluto". In effetti, non si tratta più di figure della coscienza individuale, ma di "figure di un mondo": orizzonti storico-spirituali che caratterizzano intere epoche della civiltà.

Il grado dello "spirito" costituisce il superamento dell’"individualità reale", ultima figura della ragione, nell’oggettività della vita etica collettiva e delle sue istituzioni. Anche in questa sezione si avvicendano numerose figure che rivelano altrettante forme di scissione.

Religione

Le opposizioni dell’eticità si ricompongono nella religione, considerata ora come fenomeno sovraindividuale, a un livello superiore a quello della coscienza infelice. La dialettica delle diverse figure storiche della religione culmina nel cristianesimo come religione disvelata. Ciò che si "svela" nei grandi temi della teologia cristiana è lo spirito stesso, finalmente giunto alla consapevolezza di sé. Nella morte di Cristo, nel terribile annuncio "che Dio stesso è morto", si manifesta l’innalzamento dello spirito al di sopra di ogni sua rappresentazione ed espressione sensibile. Il Dio che è "morto" è il solo assolutamente vivente, in quanto ha deposto ogni residuo di "oggettività". Lo spirito si è riappropriato di ogni alterità inerte e finita, risolvendola in sé.

Sapere assoluto

La religione disvelata ha raggiunto il contenuto speculativo dello spirito assoluto, ma lo esprime nella forma della rappresentazione (che è oggetto di fede), non ancora in quella del concetto, l’unica adeguata al pensiero. Il sapere assoluto è invece "lo spirito che si sa in figura spirituale, ossia è il sapere concettuale". Al termine del suo lungo "calvario", lo spirito è definitivamente ritornato a sé dalla sua alienazione, dopo avere deposto anche la forma della religione come l’ultima tra le figure imperfette in cui si è manifestato. Solo quando la meta è raggiunta, l’intero processo appare perfettamente trasparente e tutte le figure attraversate vengono retrospettivamente comprese nel loro pieno significato.

Si è ricomposta la scissione della coscienza tra sapere sé e sapere l’oggetto, poiché sia il soggetto sia l’oggetto si sono rivelati come nient’altro che lo spirito che contempla-se stesso. La coscienza come spirito finito è rifluita nello spirito universale. La Fenomenologia ha aperto così il passaggio alla "logica o filosofia speculativa": regno del puro sapere, "etere" dei concetti, nel quale lo spirito si dispiega come "scienza".

La posizione del sapere assoluto non costituisce per Hegel la conquista di un filosofo, bensì l’avvento di una nuova era dello spirito del mondo, preparata da oltre due millenni di educazione dell’umanità e di rivolgimenti drammatici della civiltà. "La natura del vero è quella di farsi largo quando è arrivato il suo tempo, e solo allora appare, quando il tempo è venuto".

 

IL SISTEMA

 

L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio è l’unica opera di Hegel che esponga l’intero sistema, mentre altri testi ne approfondiscono singole parti. La concezione del vero come sistema implica per la filosofia una vocazione enciclopedica in senso forte. Non si tratta semplicemente di giustapporre discipline già costituite, bensì di ripensare dal punto di vista speculativo i principi di tutti i saperi "positivi", per ritrovarli fondati in un ordine universale e necessario "secondo il concetto". Il movimento dialettico della ragione attraversa l’ambito di ciascuna scienza, la libera dal suo isolamento fondandone le relazioni con le altre, sino a che tutte si trovino "mediate" nel sistema come momenti di un’unica totalità vivente.

Quello hegeliano è forse l’ultimo grande tentativo di superare la divisione del lavoro intellettuale caratteristica dell’epoca moderna, per abbracciare in una visione teorica unitaria tutta la realtà naturale ed umana, assieme all’eredità dell’intera civiltà occidentale. È un’impresa che rivela certamente un sogno faustiano di onnipotenza, ma che poggia comunque su un’erudizione sterminata e sull’intensa passione intellettuale di tutta un’esistenza, sempre attenta a ogni evento della cultura e della vita associata. Nel sistema si produce una tensione tra l’obiettivo della massima concretezza, in quanto l’intero vive solo nella molteplicità delle sue determinazioni, e quello della massima unità sistematica, che spesso sacrifica l’autonomia e la specificità dei singoli contenuti.

Il sistema si articola in tre parti:

1) logica, o scienza dell’idea in sé e per sé;

2) filosofia della natura, o scienza dell’idea nel suo alienarsi da sé;

3) filosofia dello spirito, o scienza dell’idea che dalla sua alienazione ritorna in sé.

 

 

LOGICA

ESSERE

ESSENZA

CONCETTO

FILOSOFIA DELLA NATURA

MECCANICA

FISICA

ORGANICA

FILOSOFIA DELLO SPIRITO

(SOGGETTIVO)

ANTROPOLOGIA

FENOMENOLOGIA

PSICOLOGIA

FILOSOFIA DELLO SPIRITO

(OGGETTIVO)

DIRITTO ASTRATTO

MORALE

ETICITÀ (Famiglia-Società civile- Stato)

FILOSOFIA DELLO SPIRITO

(ASSOLUTO)

ARTE

RELIGIONE

FILOSOFIA

 

 

 

LA LOGICA

I tre volumi della Scienza della logica costituiscono una ponderosa trattazione che viene ripresa, più brevemente, nella prima parte dell’Enciclopedia. Il risultato della Fenomenologia era soltanto l’accesso al punto di vista speculativo, da cui ora lo svolgimento della verità deve prendere le mosse. Si pone quindi il problema di un nuovo inizio. Il sistema comincia, nella logica, con le prime e più semplici determinazioni del pensiero.

La dialettica fenomenologica ha mostrato come sia illusorio il realismo spontaneo della coscienza "naturale". Il senso comune considera immediatamente reale, esterno al pensiero e da esso indipendente, anche un semplice fatto o fenomeno accidentale. Nella concezione hegeliana della verità, al contrario, una tale esistenza empirica appartiene a un grado molto basso dell’esteriorità "apparente". Nessuna cosa singola, proprio perché isolata, "astratta" dal tutto, può avere significato o realtà. Essa è pura contingenza, è una possibilità che appunto in quanto tale poteva non essere.

Merita invece il nome di "realtà effettiva" (Wirklichkeit) unicamente ciò che è necessario, ciò che ha in sé la propria ragion d’essere in quanto è una totalità autofondata. D’altra parte, è solo nel movimento del pensiero che si producono determinazioni necessarie e universali, strutturate in un sistema globale di rapporti. Nessun essere del mondo può dunque avere senso se non è già mediato dal pensiero: la verità del mondo coincide con la sua pensabilità. Ciò che è reale trova la propria verità e il proprio fondamento nell’idea soltanto in essa, sotto la "spoglia variopinta" delle apparenze accidentali e molteplici, si trova l’"intima vita" delle cose, "il logos, la ragione di ciò che è".

In questo senso va intesa la celebre formula dei Lineamenti della filosofia del diritto: "ciò che è razionale è reale, e ciò che e reale è razionale". Essa non vale per singole esistenze empiriche o per singole rappresentazioni mentali, ma esclusivamente per la totalità del reale e della sua struttura razionale. Per Hegel la ragione abita il mondo, ne costituisce il valore e il senso, che spetta al filosofo riconoscere. Ma non si tratta di giustificare o di "santificare" l’esistente in ogni suo aspetto particolare e contingente.

"Wirklichkeit" non significa soltanto realtà, ma anche capacità di produrre effetti: la razionalità del reale è anche la legge dialettica del suo movimento, che si oggettiva e si manifesta concretamente nell’infinita ricchezza del mondo della natura e soprattutto del mondo dello spirito. È la stessa dialettica del reale a travolgere ogni elemento finito e contingente quando questo si rivela inadeguato al fondamento razionale, cioè "non vero".

Se dunque "la filosofia afferma il principio che nulla è reale se non l’idea", si comprende perché il sistema debba iniziare dalla logica, ma anche perché quella hegeliana non sia la logica formale della tradizione. Intendere la logica come strumento, come apparato di regole del pensiero, significherebbe retrocedere a quella separazione tra essere e pensiero già superata nella Fenomenologia. Le forme del concetto non sono "recipienti morti, passivi e indifferenti", sono invece "lo spirito vivente del reale". Senza rinunciare alle conquiste irreversibili della critica kantiana, bisogna tornare a meditare sugli insegnamenti dell’antica metafisica, che poneva nelle determinazioni del pensiero, nel logos, la vera essenza delle cose. La scienza del pensiero deve riunirsi alla scienza dell’essere, la logica all’ontologia.

Già Kant ha mostrato come la necessità e l’universalità dell’oggetto si costituiscano nel pensiero, ma ha contemporaneamente negato a questo una portata realmente oggettiva, fondando le forme a priori su un soggetto finito, irrimediabilmente separato dalla realtà in sé. Nella Logica hegeliana, al contrario, lo sviluppo dialettico delle determinazioni concettuali, universali e necessarie, coincide con la produzione dell’unica vera oggettività. In questo senso, è dunque l’idea a "creare" il mondo oggettivo. L’idea non è solo sostanza universale, ma ancor più soggetto infinito che genera attivamente le proprie determinazioni, lungi dal riceverle da una presunta esteriorità empirica.

Mentre le altre scienze filosofiche, nei loro ambiti più concreti, debbono rintracciare un nucleo razionale oscurato da una molteplicità di apparenze contingenti, la logica si muove nel regno della "verità, come essa è in sé e per sé senza velo". Essa è, per così dire, "l’esposizione di Dio, come egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito". Ben lungi dall’essere formale, la logica ha quindi il contenuto più alto, cioè l’assoluta verità del pensiero universale, che trascende la prospettiva finita del singolo soggetto riflettente. La forma, ossia l’attività stessa del pensiero, coincide qui con il proprio contenuto, cioè con i concetti pensati.

Come nella fenomenologia, anche nella logica il filosofo non ha che da contemplare, senza turbarlo, il libero sviluppo dialettico dell’idea che produce se stessa. Neppure qui sono pertinenti metodi estrinseci desunti da altre scienze, come la matematica, né è possibile una fondazione preliminare della logica, in quanto sia il metodo sia l’articolazione interna di questa scienza non sono che il movimento stesso del suo contenuto: lo svolgimento del vero. I momenti del processo, dal più semplice al più complesso, sono strutture concettuali pure. Rielaborandole come gradi del proprio sviluppo necessario e finalistico, la logica hegeliana intende assimilare tutte le forme di razionalità: da quelle della logica formale e della logica trascendentale kantiana, a quelle della tradizione metafisica e della storia della scienza. L’ordine sistematico in cui si presentano queste determinazioni dell’idea corrisponde nell’essenziale alla successione delle principali posizioni filosofiche nella storia del pensiero.

Tanto nella vecchia metafisica quanto nella logica formale domina il pensare finito dell’intelletto, che astrae i singoli concetti dal tutto e li irrigidisce nella loro "indifferente" separazione reciproca. Non a caso la riflessione ha per leggi supreme i principi di identità e di non contraddizione, che appaiono invece, alla ragione speculativa, delle vuote e sterili tautologie. In realtà, nessuna cosa è identica a sé se non si definisce allo stesso tempo in relazione ad altro, a ciò che essa non è. Tale rapporto può essere quello estrinseco di una semplice diversità tra oggetti disparati, ma anche quello intrinseco e più profondo di una relazione di opposizione. In questo caso, che richiama la polarità di Schelling, il rapporto è immanente ai termini tra cui intercorre, anzi li costituisce nella loro stessa essenza. Essi perdono l’indifferenza reciproca, non hanno realtà né identità al di fuori dell’opposizione. Ciascuno ha così nel suo altro la propria verità e, reciprocamente, è mediato in sé dall’alterità, cioè contiene la propria negazione: "tutte le cose sono in se stesse contraddittorie". In ogni concetto finito si rivela l’unità degli opposti e agisce la contraddizione dialettica, che dissolve la rigidità delle distinzioni astratte, integrando il finito, come momento, nel movimento "infinito" della totalità.

Hegel distingue tre momenti del movimento logico. Nel primo, quello astratto o intellettuale, avviene la distinzione in determinazioni rigidamente separate. Nel secondo, dialettico o negativo-razionale, la contraddizione toglie l’immediata unilateralità e l’isolamento del concetto finito, il quale, negandosi, passa nel suo opposto. La risoluzione si ha infine nel momento speculativo o positivo-razionale, che conserva nell’unità degli opposti il risultato affermativo della negazione determinata: il nuovo concetto si pone a un livello superiore di determinazione, in quanto ha assimilato anche il contenuto di quello che lo precede. In tale processo cumulativo nulla va perduto e nel risultato finale dell’intera logica, nell’idea, tutti i gradi della verità sono presenti in intima e vivente connessione reciproca. La dialettica non è comunque un metodo formale ed esterno ai suoi contenuti particolari. Nei testi di Hegel la contraddizione si presenta di volta in volta con caratteri differenti, mentre non compare quello schema rigido di tesi-antitesi-sintesi che spesso gli viene attribuito.

La prima parte della logica, la logica oggettiva, riprende criticamente le forme concettuali dell’ontologia e della metafisica tradizionali. La sua prima sezione è la dottrina dell’essere in cui il pensiero è ancora nella sua immediatezza come concetto in sé, cioè non riflesso, non sviluppato. Si presentano qui le categorie più semplici che, ancora in rapporto di reciproca esteriorità, si limitano a "passare" l’una nell’altra.

La "circolarità" del movimento dialettico implica l’impossibilità di giustificare il punto di partenza prima che sia compiuto l’intero svolgimento. Come nella Fenomenologia, anche nella Logica la via percorsa diviene perfettamente trasparente solo se contemplata dalla posizione finale. In filosofia "l’andare innanzi è piuttosto un andare indietro e un fondare".

Ciò che è più immediato è, anche qui ciò che è concettualmente più povero e astratto. L’immediatezza assoluta si rivela però illusoria e già consegnata alla mediazione, al rapporto. Non vi è nulla di più semplice del puro essere, assolutamente privo di determinazione. Esso non ha alcun contenuto e si rivela quindi del tutto uguale al nulla. Ciascuno dei due è inconcepibile e inafferrabile, dilegua immediatamente nel suo opposto. "La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento", il divenire, in cui l’essere e il nulla sono conservati come differenti ma allo stesso tempo come differenza superata. In quanto momenti del divenire, essi sono in esso già mediati. Il divenire, cioè il movimento stesso del pensiero, è allora l’autentico inizio della logica.

La prima vera categoria è l’essere determinato, la qualità, che si sviluppa sino a passare nella quantità. La mediazione risolutiva della dottrina dell’essere è la categoria della misura come quantità determinata qualitativamente. Oltre una certa soglia, che è propria di ciascuna cosa, la crescita quantitativa (la temperatura di un liquido, l’estensione di uno stato) si risolve in un "salto" qualitativo (passaggio allo stato gassoso, mutamento della costituzione politica).

La seconda sezione della logica oggettiva, la dottrina dell’essenza, presenta il pensiero nella sua riflessione e mediazione intema, cioè come concetto per sé. Le categorie sono ora più complesse e strette nella relazione intrinseca secondo la quale si riflettono l’una nell’altra. Nell’essenza si cerca il fondamento profondo della cosa, la sua interna ragion d’essere.

L’ultima parte della logica, la dottrina del concetto, è detta anche logica soggettiva, poiché il pensiero vi si rivela finalmente come attività libera e spontanea che pone autonomamente le proprie determinazioni. Il concetto è tornato presso di sé dalla sua riflessione nell’essenza e si risolve in totalità in sé e per sé. La forma oggettiva della verità è elevata alla consapevolezza soggettiva di sé.

L’intero movimento della logica culmina nell’idea assoluta, nella quale si realizza la massima universalità e allo stesso tempo la massima concretezza, poiché tutte le determinazioni sono qui superate in quanto finite, ma conservate come momenti della verità.

 

LA NATURA

La filosofia della natura, seconda parte dell’Enciclopedia, è la componente meno originale del sistema. Del resto, sin dagli scritti giovanili, le grandi passioni teoriche di Hegel sono volte al mondo degli uomini, alla storia della civiltà, alla politica e a ogni forma di espressione culturale. Tutto ciò trova riscontro sul piano speculativo nell’identificazione della natura con il momento dell’alienazione dell’idea. Il mondo naturale è "l’altro" della ragione, una terra d’esilio in cui essa stenta a riconoscere la propria immagine offuscata. Hegel allontana con fastidio le romantiche esaltazioni per i sacri misteri della natura infinita. Al contrario, questa "non è da divinizzare". A chi "diceva bastare un fil di paglia a far conoscere l’essere di Dio, bisogna rispondere che ogni rappresentazione dello spirito, la più bassa delle sue immaginazioni, il gioco del suo accidentale capriccio, ogni qualsiasi parola, è fondamento più eccellente a conoscere l’essere di Dio di qualsiasi oggetto naturale".

Poiché l’idea si trova qui come caduta "fuori di sé", non soltanto la natura è esteriorità rispetto all’idea ma, più profondamente, l’esteriorità in quanto tale è la sua stessa essenza. In essa "le determinazioni concettuali hanno l’apparenza di un sussistere indifferente e dell’isolamento le une verso le altre". È un mondo dominato da "un’accidentalità sregolata e sfrenata" nel particolare, giustapposta senza mediazione alla cieca necessità delle leggi generali. L’essere della natura è inadeguato al suo concetto, poiché l’infinita libertà del concetto consiste appunto nel risolvere dialetticamente al proprio interno ogni alterità, mediando universale e particolare. Questa "impotenza della natura" pone dei limiti alla sua comprensione speculativa, la quale deve comunque rintracciare la presenza dell’idea nel molteplice sensibile. Come già Schelling, Hegel critica l’astrattezza dei metodi matematici e delle classificazioni rigide, considerando la natura come un sistema di gradi di sempre maggiore organizzazione e complessità. La filosofia della natura si articola così nelle dimensioni teoriche successive della meccanica della fisica e dell’organica.

Oggetto dell’organica sono i sistemi naturali costituiti come organismi, cioè come unità integrate di processi, la cui espressione più alta è la vita. La serie dei viventi culmina nell’animale che, con la sua autonomia di movimento e con il suo "sentimento di sé", è la forma di massima unità e di minima dispersione nell’esteriorità di cui sia capace la natura. Tuttavia, proprio nella vita animale si rivela nel modo più chiaro come la natura sia "contraddizione non risolta" tra il suo essere e il suo concetto. Il concetto, cioè l’universale, si presenta qui infatti nella fissità del "genere", in astratta contrapposizione all’esistenza particolare degli individui che ne fanno parte. Tra i due poli sussiste una relazione negativa ed esteriore, che non è in grado di approdare a una dialettica. I singoli viventi non sono momenti interni di uno sviluppo dell’universale, ma solo esempi accidentali, semplici repliche di un genere immutabile.

Nella tensione estrema dell’istinto sessuale, l’animale manifesta la tendenza a strapparsi dalla propria manchevole singolarità per ricongiungersi al genere. Una volta espletata però nell’accoppiamento la sua unica funzione di propagatore della specie, all’individuo non resta altro destino che la morte. "L’inadeguatezza dell’animale all’universalità è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte". L’universale si conserva nel continuo annientamento di ogni particolare e nell’incessante riproduzione di altri particolari. È questo un tipico esempio di "cattivo infinito", cioè di dialettica mancata tra finito e totalità. Nel mondo naturale domina la pura ripetizione, un tempo ciclico di riproduzione e morte, mentre non riesce a sorgere un autentico sviluppo. La vera dimensione della natura è lo spazio, nel quale le determinazioni concettuali si disperdono l’una accanto all’altra.

La vittoria sulla morte naturale coincide con la nascita dello spirito il quale, come memoria e storia, sa assumere la morte dentro di sé nell’esperienza della negazione, superando e conservando come momenti del suo movimento infinito tutte le particolarità finite. Nella dimensione dello spirito, l’individuo riesce infine a risolvere la contraddizione con l’universale entrando nel tempo progressivo e creativo della memoria e della storia umana, che salvano la realtà spirituale dalla ripetizione distruttiva e muta della natura. Le molteplici determinazioni, che in natura si presentavano separate nella coesistenza spaziale ed esteriore, sono ora interiorizzate nella memoria dell’unico spirito universale. L’idea è così ritornata presso di sé, nel suo autentico elemento. "La meta della natura è uccidere se stessa, spezzare la sua corteccia di immediatezza, di sensibilità, bruciare se stessa come la Fenice, per venir fuori da questa esteriorità ringiovanita come spirito".

 

LO SPIRITO SOGGETTIVO

Il primo grado dello spirito, lo spirito soggettivo, concerne la dimensione individuale dell’esistenza umana. Il superamento dialettico della natura si manifesta dapprima nell’anima, oggetto dell’antropologia: le forme più elementari della vita psichica emergono progressivamente dalle oscure profondità del corpo, sino al risveglio della coscienza. Questa viene descritta nella fenomenologia, che nel sistema riproduce in forma abbreviata la prima parte della grande opera di Jena. Ricomposta la scissione della coscienza, lo spirito soggettivo conquista il pieno "possesso di sé", e diviene l’oggetto della psicologia.

Hegel contesta qui la separazione intellettualistica fra le tradizionali "facoltà" dell’uomo. Nel momento dello "spirito libero", che conclude la psicologia e l’intero sviluppo dello spirito soggettivo, vi è anzi un’unità dialettica di teoretico e pratico, di conoscenza e volontà. La libertà dello spirito però, può realizzarsi solo superando l’ambito astratto della vita individuale; può assumere un contenuto unicamente calandosi in un mondo di relazioni sociali concrete e di istituzioni storiche, che potenziano le energie individuali. Lo spirito diviene oggettivo appunto oggettivando la propria essenza, cioè la libertà, nella "realtà di un mondo".

 

LO SPIRITO OGGETTIVO

Diritto astratto

Lo spirito oggettivo, "regno della libertà realizzata" e "seconda natura" dell’uomo, costituisce l’insieme dei rapporti storico-sociali; ad esso si rivolge l’interesse più autentico e in esso si esplica la massima competenza teorica di Hegel. Alla trattazione dell’Enciclopedia si affiancano in questo caso le ampie e approfondite analisi dei Lineamenti di filosofia del diritto e delle lezioni berlinesi sulla filosofia della storia. Temi storico-politici erano del resto al centro di molti scritti precedenti e della seconda parte della Fenomenologia.

La prima oggettivazione della volontà libera è la persona giuridica, cioè il soggetto astratto del diritto privato. È un diritto ancora del tutto esteriore e formale, che prescinde da ogni caratteristica concreta del singolo individuo. Una semplice "cosa", la proprietà, diviene la "sfera esterna della libertà" della persona, l’ambito in cui essa è universalmente riconosciuta come soggetto autonomo e indipendente. Contro la tradizione giusnaturalistica, Hegel nega che in natura possano esserci diritti. Essi sorgono invece da una relazione sociale di reciproco riconoscimento che sottrae l’individuo in quanto soggetto giuridico, all’immediatezza della sua esistenza naturale. "Uno stato di natura è uno stato della prepotenza e del torto, di cui non può esser detto niente di più vero se non che da esso bisogna uscire".

A questo livello astratto dello spirito oggettivo, la libertà ha un carattere semplicemente negativo e vuoto, poggia sul semplice "divieto di non ledere la personalità e ciò che ne dipende". I tentativi compiuti dal contrattualismo e dal giusnaturalismo moderni per fondare la complessa realtà delle istituzioni politiche su forme giuridiche così elementari, appaiono quindi a Hegel teoricamente assurdi e inconsistenti.

 

Morale

Le norme giuridiche, nella loro oggettività esteriore, richiedono al singolo soltanto un’obbedienza formale, non un suo interiore assenso o coinvolgimento. Il passaggio alla sfera della moralità avviene invece con l’interiorizzazione del dovere, che subentra all’autorità esterna della legge. La volontà libera "si riflette in sé" nella profondità soggettiva della coscienza e non si identifica più con una cosa, con la proprietà privata. La persona giuridica diviene soggetto morale.

La libertà interiore, ignota agli antichi, contraddistingue per Hegel la forma moderna dell’individualità; essa "è venuta nel mondo per opera del cristianesimo, per il quale l’individuo come tale ha valore infinito", indipendentemente dal suo rango sociale. Il giudizio hegeliano sul cristianesimo e sulla scissione della compatta eticità del mondo classico è mutato: quella che negli scritti giovanili era una decadenza, appare ora un passaggio necessario verso un’umanità più compiuta. Il principio dell’interiorità diviene una conquista definitiva con la Riforma protestante e riceve piena chiarificazione teorica nella filosofia pratica di Kant. Il cittadino degli stati moderni, a differenza di quello della polis greca, non si identifica in modo immediato e irriflesso con le norme e i valori collettivi; neppure può tollerare, come il suddito di regimi dispotici, di obbedire ciecamente a imposizioni non condivise. Le richieste che provengono dall’ordinamento politico e sociale "debbono avere adesione, riconoscimento o anche fondamento nel suo cuore, nella sua disposizione d’animo, nella sua coscienza e intelligenza". Prima ancora di diventare buon cittadino, egli deve aver raggiunto la kantiana autodeterminazione incondizionata della volontà. Reciprocamente, lo stato moderno deve rispettare la soggettività come "un santuario, violare il quale sarebbe sacrilegio".

Quello morale è tuttavia solo un momento nella dialettica dello spirito oggettivo e, in quanto tale, va superato. Se infatti l’intenzione pura della coscienza viene, come in Kant, resa assoluta, si rimane prigionieri di un astratto formalismo morale, di un dover essere che nessun contenuto finito può soddisfare. La libertà resta vuota, chiusa nello spazio angusto dell’interiorità, e si consuma in "una retorica del dovere per il dovere".

 

 

Eticità

Il dovere trova un contenuto concreto nei compiti etici che attendono ciascun individuo e che sono pienamente determinati dal suo ruolo familiare, sociale e politico all’interno degli ordinamenti esistenti. Il "bene vivente" non è l’irraggiungibile ideale della coscienza pura, ma un mondo storico-sociale presente, qui ed ora, come razionalità in atto. L’eticità costituisce dunque la sintesi dialettica dell’oggettività del diritto e della soggettività della morale, in quanto ha esistenza nella realtà sovraindividuale delle leggi e delle istituzioni ma, allo stesso tempo, nella partecipazione consapevole del singolo.

Nell’universale "sostanza etica" di un popolo, cioè in un sistema definito di valori che si incarnano in una coerente costituzione politica, l’individuo riconosce la propria verità, ottiene quella concreta consistenza che mancava alle figure ancora astratte della persona giuridica e del soggetto morale.

Nella famiglia, prima sfera dell’eticità, il rapporto naturale e accidentale tra i sessi viene trasfigurato nella relazione spirituale dell’amore, su cui si fonda il matrimonio. Hegel rigetta come "turpe" la concezione kantiana del matrimonio come contratto. La famiglia, in quanto comunità etica, si colloca infatti a un livello più elevato di quello delle astratte e isolate persone giuridiche. Il patrimonio è condizione della vita familiare, l’educazione dei figli ne è il compimento e si realizza nella loro "seconda nascita" o "nascita spirituale".

È nella figura del figlio, divenuto persona autonoma, che la cerchia ristretta della famiglia si apre al più vasto mondo del lavoro e della società civile, seconda sfera dell’eticità. Il primo grado della società civile è il sistema dei bisogni, pensato da Hegel secondo il quadro teorico dell’economia politica di Adam Smith. Dei soggetti concreti, con particolari bisogni e capacità, perseguono i propri interessi individuali. Lo sviluppo storico dell’economia moderna segna il trionfo dello spirito privato, indifferente ai fini collettivi, e approfondisce la scissione tra il singolo e la comunità. La società civile è quindi il momento negativo dell’eticità: "sistema dell’atomistica" e "campo di battaglia dell’interesse privato individuale di tutti contro tutti". Nella divisione del lavoro e nello scambio, tuttavia, l’egoismo del singolo e il suo apparente isolamento si rovesciano in "un sistema di dipendenza universale per cui la sussistenza e il benessere del singolo e la sua esistenza giuridica sono intrecciati con la sussistenza, il benessere e il diritto di tutti" (Filosofia del diritto). Questa non è che la teoria smithiana della "mano invisibile", degli automatismi dell’economia capitalistica che, all’insaputa dei soggetti, guidano gli interessi privati verso il benessere collettivo.

Hegel però non è affatto ottimista sugli effetti spontanei di tale "necessità cieca" e, soprattutto, la considera un fattore di coesione sociale insufficiente, nettamente inferiore alla dignità etico-politica dello stato. Pur ritenendo una conquista positiva dell’età moderna il principio dell’individualità come libertà civile, che premia e stimola le intelligenze e i talenti, egli denuncia gli squilibri inevitabili nel funzionamento conflittuale del sistema dei bisogni. Mentre si approfondisce "l’opposizione della grande ricchezza e della grande miseria", si moltiplicano i "lavori che ottundono completamente, sono malsani, insicuri e limitano l’abilità". La sussistenza del singolo è affidata al "movimento elementare e cieco" della "macchina" economica, che determina in modo altamente accidentale il suo benessere o la sua rovina. Nella prospettiva hegeliana, il sistema dei bisogni non può pretendere l’assoluta autonomia auspicata dalle teorie liberiste bensì, "come una bestia selvaggia, richiede un continuo, severo dominio e addomesticamento".

Il secondo momento della società civile, l’amministrazione della giustizia, non modifica sostanzialmente questo quadro, in quanto si limita a tutelare giuridicamente i diritti della proprietà e della libera iniziativa. Invece nell’ultimo livello, quello della sicurezza pubblica ("polizia") e delle corporazioni, Hegel teorizza una politica parzialmente "interventista" in economia, volta a correggere le disfunzioni più gravi prodotte dallo spirito privato. Le istituzioni pubbliche devono frenare le tendenze distruttive dei conflitti tra interessi e devono assicurare a tutti la sussistenza. Pur con accenti paternalistici e autoritari, Hegel afferma che la soluzione del problema del pauperismo può giustificare una parziale limitazione del diritto di proprietà; questo infatti, considerato ora da un punto di vista superiore a quello del diritto, non appare assolutamente sacro e inviolabile.

Le corporazioni, ancora attive nell’arretrata economia tedesca, hanno nel sistema hegeliano un ruolo di mediazione tra l’atomismo del sistema dei bisogni e l’unità politica dello stato. La coesione organica tra le funzioni sociali si articola nel sistema dei ceti, poiché "un insieme vivente si ha soltanto in una totalità articolata". Il ceto "sostanziale" o "naturale" è legato alla terra e ai valori tradizionali; la classe del commercio e dell’industria appartiene al mondo dinamico dell’abilità e della ricchezza. Infine, il ceto "pensante" degli intellettuali-funzionari è considerato da Hegel l’elemento di passaggio dall’ambito privato della società civile a quello pubblico dello stato; in quanto classe "generale", esso mira soltanto, in modo disinteressato, a fini universali.

Nella concezione dello stato, terzo e ultimo momento dell’eticità, confluiscono molti temi che per decenni restano al centro della riflessione hegeliana. Abbandonato l’ideale giovanile di filosofia come contrapposizione polemica alla realtà già nel periodo di Francoforte Hegel si impegna, attraverso lo studio dell’economia politica, in un’analisi approfondita del mondo moderno. Il suo lavoro teorico è strettamente intrecciato all’eccezionale esperienza politica della sua generazione, che vive gli anni "senza dubbio più ricchi che la storia del mondo abbia mai avuto". Le ultime pagine della Fenomenologia vengono scritte alla vigilia della battaglia di Jena (1806), con la quale l’esercito napoleonico sconfigge i prussiani. In una lettera, Hegel racconta con grande emozione di aver visto Napoleone a cavallo, in ricognizione, come "anima del mondo" concentrata in un solo individuo. Nell’opera napoleonica di modernizzazione civile e politica dell’Europa, egli vede in questi anni l’attuazione dei principi positivi della rivoluzione e il superamento dei suoi eccessi

Dopo il Congresso di Vienna, Hegel non si schiera con la reazione più ottusa e, anzi, ritiene che la restaurazione non possa cancellare le principali conquiste giuridiche e politiche che la Francia ha consegnato per sempre a tutta l’umanità. Il modello definitivo di stato razionale è la monarchia costituzionale parzialmente incarnata dallo stato prussiano di cui il filosofo dalla cattedra di Berlino, è la maggiore autorità culturale.

L’ordine napoleonico prima, o la monarchia costituzionale poi, non sono mai, negli scritti maturi di Hegel, dei semplici ideali. La filosofia, anche e soprattutto quando è filosofia politica, non ha ideali da proporre al mondo: il suo compito "è intendere ciò che è, poiché ciò che è, è la ragione". Ancor più che nella natura, è nel mondo storico-sociale che l’idea, sotto la scorza delle apparenze contingenti, si rivela come "la sostanza immanente, l’eterno che vi è in atto".

È invece una facile polemica contro il mondo quella che isola astrattamente i singoli elementi negativi di un’istituzione o di un ordinamento politico per esibirsi in una critica superficiale evitando il ben più arduo sforzo concettuale di comprendere la sostanza razionale dell’intero. Da tale pigrizia speculativa deriva poi la fuga nel puro dover essere di impotenti ideali politici, soggettivamente contrapposti alla realtà oggettiva. Con grande disprezzo, cui si mescolano motivi di polemica personale, Hegel si scaglia nella Filosofia del diritto contro gli atteggiamenti politici che muovono dal sentimento morale, dall’entusiasmo o comunque da una visuale soggettiva, invece che dalla realtà effettuale e da una solida analisi teorica.

Del resto, la verità viene riconosciuta, in quanto risultato solo al termine del suo sviluppo dialettico. La filosofia non si volge profeticamente verso il futuro, anzi "viene sempre troppo tardi per insegnare come il mondo debba essere.

Come pensiero del mondo, essa appare nel tempo solo dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione". Come la civetta di Minerva, essa "spicca il suo volo solo sul far della sera". Neppure al filosofo, inoltre, è dato il limpido sguardo di Dio; anche la sua coscienza, come quella dei suoi contemporanei, appartiene alla prospettiva storicamente limitata della propria epoca: "nessuno può in realtà andare oltre il proprio tempo, come non può uscire dalla propria pelle".

Riconciliare la filosofia con la realtà significa giustificare sul piano speculativo gli ordinamenti politici esistenti, ma solo per quanto concerne la loro generale struttura razionale, mentre le determinazioni particolari, in quanto accidentali, possono rivelarsi "irrazionali" e destinate al tramonto. Lo stato analizzato nel sistema non riflette quindi fedelmente la monarchia prussiana in tutti i suoi tratti contingenti.

La teoria hegeliana dello stato "razionale" vuole esplicitare la soluzione, che la storia stessa sembra aver preparato, del problema politico dell’epoca moderna: affermare il principio della totalità etica, incarnata dall’autorità dello stato, senza soffocare l’individualità e la libertà che caratterizzano la morale, la religione, la vita economica e civile del mondo moderno. Lo stato deve quindi essere un organismo articolato e complesso, che consenta al cittadino di mantenere un’autonomia di giudizio mentre obbedisce e di perseguire il proprio interesse personale mentre collabora ai fini pubblici. Se cade l’elemento della volontà libera, lo stato si riduce a puro meccanismo di dominio. Perché vi sia una totalità vivente, l’autorità non deve gravare senza mediazioni sull’individuo, ma articolarsi in una gerarchia di organi istituzionali in cui ciascun membro sia anch’esso centro vivente di attività.

D’altra parte, se è pensato come semplice emanazione delle volontà individuali e come contratto, lo stato viene abbassato al livello inferiore del diritto astratto e dell’atomismo degli scopi privati. Contro la tradizione liberale, per Hegel la dimensione politica è l’espressione suprema della collettività e non è riducibile al puro equilibrio tra interessi che si instaura nella società civile. Lo stato non è un utile strumento al servizio del benessere e della felicità degli individui, bensì è assoluta finalità, è "la realtà dell’idea etica, lo spirito etico in quanto volontà sostanziale rivelata a se stessa". Come momento conclusivo dell’eticità, esso è il risultato che fonda tutto il processo, conferendo vera e concreta realtà alla famiglia e alla società civile. Non bisogna immaginare degli individui preesistenti all’unità politica di un popolo, i quali per contratto ne stabiliscano arbitrariamente la costituzione; al contrario, "l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è membro dello stato".

Un popolo, se si prescinde dalla sua unità politica che culmina nella figura del monarca, non è che "moltitudine informe". Hegel perciò rifiuta il suffragio universale e lo stesso principio liberale del parlamentarismo, poiché riducono la sovranità a una somma inorganica di opinioni soggettive e di interessi privati. La razionalità politica va piuttosto affidata al potere esecutivo del governo e all’alto senso dello stato di una classe di funzionari, selezionati in base alla cultura e alla competenza. Le camere rappresentative del ceto terriero e delle corporazioni professionali hanno la funzione limitata di illuminare le decisioni dell’esecutivo, che calano dall’alto, circa le esigenze che sorgono dalla società civile.

Nella monarchia costituzionale hegeliana, l’accento cade più sull’autorità e sulla coesione dello stato che sulla libertà del singolo, più sulle finalità pubbliche che sulla salvaguardia del privato e delle sue spinte centrifughe. Hegel critica l’idea liberale e giusnaturalistica di una libertà essenzialmente negativa, come limite invalicabile che oppone l’individuo all’altro individuo o all’invadenza dello stato: come se "questa limitazione collettiva, il reciproco impacciarsi di tutti, lasciasse a ciascuno il piccolo posto in cui potersi muovere". Al contrario della libertà formale del diritto, della volontà come puro arbitrio, la libertà positiva e concreta del singolo, già oggettivata nella famiglia e nella società civile, non incontra nello stato una limitazione ma, anzi, la sua compiuta esplicazione. La vera libertà si realizza nella sostanza etica universale, nella quale diritti e doveri coincidono. "Tutto ciò che l’uomo è, egli lo deve allo stato: solo in esso egli ha la sua essenza".

 

LA STORIA UNIVERSALE

La priorità del fine universale dello stato sugli scopi privati si mostra pienamente quando la difesa della nazione richiede ai cittadini il sacrificio dei beni e della vita stessa. Nel "momento etico" della guerra, di fronte al diritto supremo dello stato, "l’autonomia particolare dei singoli, l’immersione di essi nell’esistenza esterna del possesso e nella vita naturale, sente la propria nullità".

Nessun diritto sovranazionale può essere realmente vincolante per gli stati, poiché ciascuno di essi è un’individualità pienamente sovrana. Essi quindi "sono nello stato di natura gli uni di fronte agli altri" e hanno come unica, legittima destinazione quella di affermare la propria potenza e di "fare" la storia. Il rispetto dei trattati e del diritto internazionale, benché sia auspicabile, rimane un semplice dover essere, in quanto manca un’autorità universale al di sopra delle parti. Hegel non crede all’utopia kantiana di una "pace perpetua" garantita da una federazione cosmopolitica.

Nei conflitti tra stati non c’è alcun giudice e la decisione ultima spetta alla forza. Ha poco senso distinguere tra guerre giuste e guerre ingiuste, perché la lotta avviene tra due diritti sovrani, non tra un diritto e un torto all’interno di uno stesso ordine giuridico. Neppure il giudizio morale, che appartiene a un grado subordinato dell’eticità, è in questo caso pertinente. Il giudizio universale sugli stati e sui popoli è pronunciato solo dal tribunale assoluto della storia del mondo.

La filosofia della storia hegeliana assimila molti temi delle filosofie della storia illuministiche e romantiche. Costumi e valori, religione e tradizioni, lingua e cultura costituiscono lo spirito di un popolo, ma per Hegel sono comunque le istituzioni, le leggi e lo stato a rappresentarne l’espressione più elevata. Un popolo può fare il suo ingresso nella storia solo quando la sua sostanza etica è giunta a oggettivarsi in una costituzione politica.

La storia universale è la realizzazione compiuta dello spirito oggettivo. In ciascuna epoca, lo spirito di un popolo determinato si fa portatore di un grado particolare di sviluppo dello spirito del mondo, esprime il principio etico più alto che questo ha sino a quel momento raggiunto. In virtù della presenza immanente dello spirito universale, tale popolo è nella sua epoca il veicolo della storia del mondo, con un diritto assoluto di dominio sugli altri. Quando lo spirito passa in un grado più elevato, un altro popolo si fa avanti a rappresentare il nuovo principio etico, mentre il precedente entra nel periodo della decadenza e della corruzione. "Può avvenire che popoli, portatori di concetti non così alti, continuino a esistere; ma nella storia del mondo vengono messi in disparte".

La storia, in quanto spirito oggettivo, è rivelazione dell’idea e contiene quindi un alto significato razionale: è un processo rigorosamente teleologico, attraverso il quale lo spirito diviene sempre più cosciente di sé e della propria libertà. Tuttavia in Hegel, grande estimatore di Machiavelli, tale certezza speculativa non è un piatto ottimismo e non intende assolutamente occultare la tragicità sconcertante del concreto cammino storico dell’umanità. Qui il dialettico "lavoro del negativo" appare in tutta la sua distruttiva potenza. La ragione si apre la strada attraverso immani conflitti tra popoli, individui e istituzioni, travolgendo intere civiltà e abbandonando i vinti, con la loro "angoscia senza nome", su una scena di devastazione e di morte. Anche il destino dei vincitori è comunque consegnato alla transitorietà di tutto ciò che è storico: "noi andiamo vagando tra le rovine di ciò che fu eccellente". La storia si mostra al primo sguardo come "un mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui".

Di fronte a una prospettiva così drammatica, appaiono inconsistenti i giudizi morali e le proteste sentimentali, così come ogni tentativo di sovrapporre agli eventi un criterio di interpretazione precostituito e soggettivo. "Un fine ultimo deve stare a fondamento di questo immane sacrificio di contenuto spirituale" e la filosofia deve ritenere "che nella storia universale vi sia una ragione; non la ragione di un soggetto particolare, ma la ragione divina, assoluta". La filosofia della storia non deve avere alcun punto di vista esterno al proprio oggetto, non deve far altro che esplicitarne il senso immanente. Ogni distruzione o tragico rovesciamento si rivela allora come "catarsi" dello spirito nel suo avanzare verso una forma più pura ed elevata.

La struttura tragica della storia è particolarmente evidente nel destino del singolo individuo. L’intera catena degli eventi è costituita in ultima istanza da azioni individuali, prodotte da moventi soggettivi. Hegel ritiene che motore immediato della storia siano non le coscienze, ma le passioni degli uomini sulle quali, basse o elevate che siano, non è pertinente in sede storiografica un giudizio morale: "niente di grande è stato compiuto, né può essere compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della passione in quanto tale" (Enciclopedia). Ciascun individuo però, mentre lotta per il proprio scopo soggettivo, come ciascuno stato mentre afferma la propria potenza, è il tramite inconsapevole della ragione immanente nella storia. "Nella storia universale viene alla luce, mediante le azioni degli uomini, qualche cosa di diverso da ciò che essi si propongono e ottengono, da ciò che essi sanno e vogliono immediatamente" (Lezioni sulla filosofia della storia). E una sorta di astuzia della ragione questo suo perseguire il proprio fine universale avvalendosi degli individui come di strumenti. Del resto, "la storia non è il terreno della felicità; i periodi di felicità sono in essa pagine vuote".

Nella dialettica tra principi etici opposti, gli individui conservatori si identificano totalmente con i valori e i costumi esistenti, mentre quelli storico-universali "sono i veggenti: essi sanno quale sia la verità del loro mondo e del loro tempo, quale sia il concetto, l’universale prossimo a sorgere". Nelle età di crisi e di mutamento essi, in quanto portatori dello spirito del mondo "che batte alle porte del presente" hanno dalla loro parte un diritto assoluto che li assolve dalla violenza esercitata: "una grande figura, che procede innanzi, calpesta più di un fiore innocente". Anche a loro, e più che agli altri uomini, l’astuzia della ragione riserva un destino tragico: "raggiunto lo scopo, essi somigliano a involucri vuoti che cadono". La grande figura di Napoleone esercita ancora tutto il suo fascino su Hegel filosofo della storia.

Il cammino storico della libertà procede da oriente a occidente attraverso quattro "regni" o epoche che corrispondono ad altrettanti principi spirituali. Nell’antico dispotismo orientale vi è la libertà di uno solo, del sovrano divinizzato. La democrazia greca è invece il regno della bella e felice libertà di pochi che lascia sussistere accanto a sé la schiavitù. L’eticità è qui armonia immediata e spontanea tra individuo e collettività, tra volontà singola e costume. Si tratta della "fioritura più graziosa, ma transitoria e passeggera", in quanto la compattezza dell’ethos deve dissolversi con la riflessione nell’interiorità, per preparare uno spirito più profondo. Segue così l’età "infelice" dell’impero romano, in cui gli individui sono riconosciuti come persone giuridiche al prezzo di una generale sottomissione politica al fine universale dello stato.

Nell’ultima epoca, quella cristiano-germanica, il principio della libera individualità si svincola dall’identificazione con un popolo o un ceto particolare e diviene l’essenza universale dell’uomo. Si tratta di un lungo e tormentato processo che coincide con la formazione della coscienza moderna. Una prima tappa fondamentale è la Riforma che, innalzando "la bandiera dello spirito libero", consente nelle nazioni protestanti che lo stato e la chiesa perseguano in comune il fine della libertà interiore e civile.

Nei paesi cattolici, invece, la "servitù dello spirito nel dominio religioso" e la "condizione di ingiustizia e di immoralità nello stato" costringono la libertà ad affermarsi con una rivoluzione violenta. Dopo la grande maturazione illuministica della cultura, "il pensiero è diventato potere" per la necessità di combattere un’autorità arbitraria e non più legittimata. Il merito storico di Rousseau, secondo Hegel, è l’aver proclamato principio supremo dello spirito, e fondamento della sovranità, la volontà libera intesa come pensiero. Il suo limite è l’aver pensato la volontà universale a partire dalla volontà singola e prescindendo astrattamente da ogni contenuto positivo. Tale libertà vuota e assoluta non sopporta alcun vincolo etico e sfocia così necessariamente nella violenza del Terrore giacobino. "La rivoluzione francese ha avuto inizio e origine nel pensiero", e sua gloria immortale è il fatto di avere introdotto nella storia del mondo i diritti dell’uomo e del cittadino. Ma la libertà astratta ha mostrato tragicamente la propria contraddizione nel non potersi consolidare in istituzioni durature, rimanendo semplice "furia del dileguare", pura distruttività. Lo sbocco della sua negatività assoluta non può essere in ultima istanza che la morte, "la più fredda e la più piatta morte, senza altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo o di prendere un sorso d’acqua" (Fenomenologia).

Negli anni della restaurazione, la società europea sembra a Hegel ormai avviata a un periodo di pace e di stabilità, in cui la solidità delle istituzioni potrà consentire riforme razionali senza ulteriori rotture rivoluzionarie. Il drammatico sviluppo dello spirito appare sostanzialmente concluso con la conquista della ragione e della libertà, che si tratterà soltanto di perfezionare e di estendere. La storia del mondo si rivela retrospettivamente come "la vera teodicea, la giustificazione di Dio nella storia". La struttura teleologica della storia non è comunque una forma di determinismo: il senso razionale e la giustificazione degli eventi si mostrano solo quando il percorso è compiuto. La "necessità" di ciò che è accaduto può essere giudicata solo a posteriori. L’astuzia della ragione, che opera ‘ alle spalle" degli individui, è pur sempre il risultato delle loro complesse interazioni, non un fato immutabile, né l’imposizione estrinseca di un volere trascendente. Il Dio della storia coincide con l’immanenza dell’idea.

 

 

LO SPIRITO ASSOLUTO

Arte

Dalla sua oggettivazione nell’eticità e nella storia del mondo, lo spirito ritorna infine presso di sé come spirito assoluto, elevato cioè al puro sapere di se stesso. Lo spirito assoluto è il contenuto comune ai suoi tre momenti, i quali differiscono solo per la forma del sapere che lo spirito ha di sé: all’arte corrisponde l’intuizione sensibile, alla religione la rappresentazione, alla filosofia il concetto. Questa parte conclusiva del sistema è trattata, oltre che nell’Enciclopedia, anche nelle lezioni sull’estetica, sulla filosofia della religione e sulla storia della filosofia.

L’arte è l’apparire sensibile dell’idea come bellezza. Essa non è mai imitazione della natura, in quanto suo unico contenuto è sempre lo spirito. Come i romantici anche Hegel vede nell’intuizione estetica una forma della verità, inferiore tuttavia alla religione e alla filosofia; essa non è in alcun modo una via privilegiata all’assoluto.

La contraddizione dialettica tra contenuto spirituale e forma sensibile dà luogo nel suo sviluppo sia alle tre grandi epoche della storia dell’arte, sia all’articolazione del sistema delle singole arti.

La prima epoca è quella della forma simbolica, che corrisponde all’arte orientale. Qui il contenuto spirituale non è giunto ancora a chiara consapevolezza e non riesce quindi a trovare un’espressione adeguata. Un’esistenza sensibile (un leone) viene assunta a simbolo di un contenuto spirituale (il coraggio). Mentre i semplici segni (i colori di una bandiera, la maggior parte dei suoni di una lingua) hanno un rapporto arbitrario e convenzionale col loro significato, il simbolo è ancora prigioniero di una relazione irnmediata e naturale, in quanto ha in sé le qualità di ciò che rappresenta. Ne deriva una forma di designazione ambigua, poiché da un lato il leone ha altre qualità oltre a quella del coraggio, dall’altro il coraggio può essere rappresentato con simboli diversi dal leone.

Nell’arte simbolica, l’idea percepisce confusamente l’estraneità e l’inadeguatezza dei fenomeni naturali in cui cerca di esprimersi, e quindi "freme e ribolle in essi, fa loro violenza, li deforma e li esagera in modo innaturale". Il culmine dell’ambiguità simbolica è l’enigma della Sfinge, nella quale "lo spirito umano tende a venir fuori dalla forza bruta e ottusa dell’animale": un processo che giunge a compimento nella luminosità dello spirito greco.

La forma d’arte classica è la sola a raggiungere l’equilibrio tra forma e contenuto, scoprendo nella figura umana "l’unica apparenza sensibile adeguata allo spirito". Nella statua greca, il corpo umano è idealizzato e sottratto all’accidentalità naturale, degno di far risplendere nella bellezza l’individualità di un dio antropomorfo. La serena armonia tra divino ed umano, tra interno ed esterno, che pervade l’arte e la religione della polis, esprime la libera e spontanea eticità del popolo greco.

Tuttavia, tale unità è ancora immediata, non riflessa, e chiusa nella prospettiva finita di un contenuto storicamente determinato. Lo spirito assoluto per conquistare la propria universalità, deve "traboccare" oltre la forma sensibile della figura umana e oltre i caratteri particolari delle molteplici divinità olimpiche. Gli occhi privi di sguardo della statua greca rivelano una soggettività che non si è ripiegata nel profondo. L’interiorità infinita della coscienza cristiana nasce invece dal dolore di una scissione assoluta, al di là dell’armonia della bellezza.

L’ultima forma d’arte è quella romantica, che nell’accezione hegeliana non si identifica col romanticismo storico, ma abbraccia l’intero corso della civiltà cristiana dalle origini all’età moderna. L’arte romantica, che nell’unico Dio conosce il proprio contenuto "come assoluto in spirito e in verità", sa che vi è qualcosa di più alto della bellezza, in quanto lo spirito infinito trascende qualsiasi espressione sensibile. Si riapre qui la contraddizione tra contenuto e forma che nell’arte classica aveva trovato una felice, ma effimera pacificazione. La forma romantica riprende incessantemente il compito impossibile di esprimere l’assoluto nell’esteriorità naturale, rivelandosi come un’"arte che va oltre se stessa". L’inadeguatezza, che nell’arte simbolica nasceva dall’immaturità dell’idea, ora deriva viceversa dall’eccessiva altezza del contenuto spirituale.

Mentre l’esteriorità sensibile decade a natura abbandonata da Dio, l’arte romantica si ripiega nell’interiorità e nella soggettività dello spirito. Quando in età moderna tramontano i contenuti religiosi dell’arte sacra, si dissolve anche la dimensione universale della soggettività, e questa si riduce all’interiorità individuale e accidentale. Nel romanticismo moderno, l’arbitrio soggettivo dell’artista ha un dominio assoluto sulla sua materia, che con la fantasia può "sconvolgere e distorcere in maniera caricaturale". L’arte stessa va incontro alla sua dissoluzione nelle forme estreme dell’umorismo e dell’ironia, nelle quali "l’io che da sé tutto pone e dissolve", non riconoscendo nulla di sacro e di universale, "porta allo sbaraglio se stesso e i suoi oggetti".

Il genere letterario del romanzo borghese mostra con particolare evidenza come l’arte abbia perduto la propria funzione universale. Nella "prosa del mondo" che caratterizza la società moderna e la frammentazione della vita privata, non sono più pensabili la grande poesia epica o la tragedia classica che impersonavano negli eroi le potenze collettive dell’eticità. Tramontati il tessuto connettivo del mito e la figura dell’artista educatore del popolo, rimane l"‘epopea borghese" del romanzo, che racconta le gesta individuali e prosaiche del quotidiano. L’universale nel mondo moderno è ormai passato nel suo vero elemento, quello del pensiero, e spetta ora alla filosofia esprimere lo spirito del tempo. "L’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato".

Hegel istituisce tra le singole arti una gerarchia che rispecchia la progressiva liberazione del contenuto dall’esteriorità sensibile della forma. L’architettura, la più coinvolta nella pesantezza della materia, ha la sua più caratteristica esplicazione nell’arte simbolica. Nella scultura lo spirituale e il sensibile si plasmano l’un l’altro, raggiungendo la quieta armonia della forma classica. La spiritualizzazione del materiale sensibile procede poi con l’arte romantica nella pittura e nella musica, culminando nella poesia. Qui finalmente il suono della parola, "semplice segno" convenzionale, diviene pura voce dello spirito.

 

Religione

Nella religione lo spirito assoluto conosce se stesso nella forma della rappresentazione, superiore all’intuizione sensibile dell’arte, ma ancora relativamente inadeguata. La contraddizione tra forma e contenuto si svolge anche qui attraverso gradi successivi, che coincidono con le diverse fasi della storia delle religioni. La rappresentazione, nella coscienza religiosa, non è più mediata dalle figure sensibili dell’intuizione estetica, ma conserva comunque elementi non concettuali: racconti, immagini, eventi che concernono la divinità, pensati spesso in modo ingenuamente realistico. Questi elementi, soprattutto, rimangono separati e giustapposti nel racconto di un "accadere" molteplice e finito, non superato nell’unità dialettica del concetto speculativo. Anche la coscienza religiosa raggiunge un’unità, ma solo nella fede e nel culto, non nel pensiero.

Da un lato, Hegel rivendica il valore autenticamente speculativo della teologia, sia contro le concezioni romantiche della religione come sapere immediato o sentimento, sia contro la riduzione illuministica del cristianesimo a un puro messaggio morale. D’altro lato, giudica il deismo un’arida metafisica intellettualistica, che nega astrattamente i contenuti delle religioni storiche e "positive" come semplici errori o miti poetici: "l’intelletto nell’età moderna ha fatto di Dio una realtà astratta, un aldilà dell’autocoscienza umana, un muro liscio e ferreo, contro cui l’uomo non potrebbe che rompersi la testa" (Lezioni sulla filosofia della storia). La filosofia della religione deve invece ripercorrere la storia delle rappresentazioni più o meno mitiche e dei culti positivi, in tutta la loro ricchezza vivente, riconoscendovi dei gradi sempre più elevati di consapevolezza dello spirito assoluto. Hegel distingue le religioni determinate o etniche dal cristianesimo come religione assoluta o rivelata. Nelle singole religioni si esprimono gli spiriti dei popoli come stadi dell’autocoscienza umana: "come un popolo si rappresenta Dio, così si rappresenta anche il suo rapporto con Dio, o se stesso: in tal modo la religione è anche il concetto che il popolo ha di sé. Un popolo che considera la natura come il suo Dio non può essere un popolo libero: solo quando vede in Dio uno spirito al di sopra della natura diviene eSso stesso spirito, e libero" (Lezioni sulla filosofia della religione).

Nella religione immediata o della natura, che corrisponde al mondo orientàle, il divino non si è ancora liberato dalla commistione con l’elemento naturale. L’elevazione al di sopra della natura avviene con le religioni dell’individualità spirituale nelle due forme della religione ebraica del sublime e della religione greca della bellezza. Mentre il Dio ebraico è violentemente contrapposto al mondo sensibile e agli uomini come padrone assoluto, gli dèi olimpici rappresentano un’umanità idealizzata e quindi una conciliazione col mondo. Tuttavia, l’unità greca tra sensibile e spirituale ha il carattere immediato del bello artistico; inoltre, l’individualità del dio, che è ancora finita e determinata, può completarsi solo nella molteplicità del pantheon politeistico. Segue poi la religione romana della finalità o del fato, con un contenuto universale che, come fine ancora astratto e cieco, sottomette a sé la natura, gli uomini e le stesse individualità divine

Nel cristianesimo, infine, Dio, cioè la verità stessa, si rivela interamente come soggetto infinito e universale. È una religione "disvelata", in quanto "la natura stessa dello spirito è manifestarsi". Hegel rifiuta ogni contrapposizione tra fede e sapere, tra teologia e speculazione: nel cristianesimo "tutti gli enigmi sono stati risolti, tutti i misteri rivelati". Gli elementi mitici e rappresentativi del racconto evangelico e i dogmi della fede vanno interpretati in chiave speculativa, al di là della loro formulazione storico-positiva. Nell’Incarnazione va letta ad esempio la conciliazione tra Dio e mondo, l’unificazione tra infinito e finito. A differenza dell’antropomorfismo greco, però, la manifestazione sensibile del divino è qui solo un momento della Trinità la quale, nella sua struttura rappresentativa, riproduce il movimento stesso della dialettica. "Cristo è morto; ossia il Dio che appare è posto come una realtà che supera e toglie se stessa, come un momento, e solo quando è morto, ed elevato alla destra del Padre, egli è posto nella sua perfezione" (Lezioni sulla filosofia della storia). Alla mediazione dell’assoluto nella figura del Figlio segue, con la morte e resurrezione, il ritorno presso di sé come Spirito, come "mediazione della mediazione"

Dopo la morte di Hegel, il rapporto tra religione e filosofia sarà una questione centrale nell’accesa polemica tra i discepoli che si contenderanno l’eredità del maestro. In effetti i testi hegeliani da un lato ribadiscono l’assoluta verità del cristianesimo, inteso secondo uno spirito luterano, ma d’altro lato costruiscono il superamento dialettico della religione nella filosofia. Questo precario equilibrio è esposto agli attacchi che provengono sia dall’ortodossia religiosa, che condanna la riduzione dei misteri della fede alla loro "verità" speculativa, sia da posizioni filosofiche radicali, che accusano Hegel di aver mascherato con un timido "compromesso" il senso sostanzialmente ateistico della sua filosofia.

 

Filosofia

La verità dell’arte e della religione è la filosofia, nella quale lo spirito assoluto si libera delle forme finite dell’intuizione e della rappresentazione, per conquistare l’unica forma adeguata al suo infinito contenuto: il puro concetto speculativo. Caduto ogni filtro espressivo estraneo, il pensiero conquista la perfetta trasparenza. La filosofia è "l’idea che pensa se stessa", che "si produce e gode se stessa etemamente come spirito assoluto". La scienza e il sistema sono così tornati, nel supremo risultato, a ripiegarsi sul momento iniziale della logica, rifondando a ritroso l’intero movimento circolare della verità. Nella totalità compiuta è riscattata la dolorosa temporalità in cui lo spirito si è rivelato, in quanto l’accidentalità del divenire è stata superata nell’articolazione razionale ed eterna dell’idea. La filosofia, momento conclusivo del sistema, ha valore non in sé, ma come risultato che comprende l’intero sviluppo; analogamente, nella storia della filosofia ciò che conta non è l’ultima posizione, ma tutto il percorso del pensiero, superato e conservato nella filosofia hegeliana. "Niente si perde, tutti i principi si conservano; la filosofia ultima è divenuta la totalità delle forme. Questa idea concreta è la conclusione dei conati dello spirito, in quasi due millenni e mezzo di lavoro serissimo, per diventare oggettivo a se stesso, per conoscersi" (Lezioni sulla storia della filosofia). L’autentica storia del pensiero, depurata dei particolari esteriori e contingenti, rivela uno sviluppo dialettico necessario, in cui la successione tra i sistemi filosofici coincide con l’articolazione logica dell’idea.

A conclusione di ciascuna epoca della storia, quando lo spirito del popolo dominante si è pienamente oggettivato nei costumi e nelle istituzioni, quando ha esaurito le sue potenzialità espressive nell’arte e nella religione, solo allora sorge, ultima, una grande filosofia. Lo spirito del popolo, ormai estenuato, si ritrae dalla vita nell’elemento del pensiero e si riflette nella coscienza di sé. "La filosofia comincia al tramonto di un mondo reale; quando essa si presenta, con le sue astrazioni, dipingendo tutto a tinte grigie, la freschezza e la vivacità della gioventù sono ormai tramontate". L’avvento della riflessione è allo stesso tempo sintomo e causa della dissoluzione dell’eticità. La grande filosofia greca, ad esempio, si sviluppa assieme alla rovina del popolo ateniese. Pur non potendo pensare altro che il proprio tempo, la filosofia, "in quanto è sapere, lo supera e se lo contrappone dinanzi", e in questa superiore consapevolezza matura un nuovo mondo. "La filosofia è così già la manifestazione di una forma più progredita dello spirito: essa è come la culla interiore dello spirito che in seguito giungerà alla forma effettuale".

 

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